[Fan Fiction] L’intollerabile peso di un fiocco di neve : Capitolo 1

Il mio nuovo cappotto blu è caldo e morbido. Così comodo che ci potrei dormire dentro. Le maniche sono splendidamente larghe: posso piegare i gomiti e toccarmi le spalle con le mani senza togliermi il cappotto e senza che si sformi. Qualcosa ai limiti dell’immaginabile. Non so se sono le maniche ad essere larghe o le mie braccia ad essere troppo sottili, anche se ho messo qualche muscolo in più dopo il pellegrinaggio.

Sembro quasi uno spaventapasseri, ma tanto lo sembrerei con qualunque capo d’abbigliamento addosso. Quindi pace. Mi godo la beatitudine infinita che dona indumento caldo in un freddo polare.

Lo specchio è freddo e consapevole, mi rimanda la mia perfetta immagine, senza sfuocature né crepe. È pulito e splendente, non potrebbe essere più vero.

Sono io.

Quell’immagine potrebbe saltare dallo specchio e venirmi davanti, scegliere una vita propria e smetterla di copiare ogni movimento, ogni espressione, ogni inclinazione.

Forse sarebbe la scelta migliore.

È ora che prendi una strada anche tu, riflesso. Smettila di copiarmi, se non la smetti un giorno ti accuserò di plagio e dovrai darmi tanti di quei soldi che dovrai per forza piantarla. In tal caso, li darei tutti a Rin per ristrutturare la locanda e per far licenziare quella smorfiosa della locandiera.

“Vedo che il mio regalo ti è piaciuto!”

Rin. Adorabile bastardo. Hai dovuto mettere i saldi, vero, dopo la sconfitta di Sin? Gli affari vanno alla grande. In tutta Spira le sue locande sono diventate le più famose e gettonate dai viandanti, che ormai le preferisco ai templi yevoniti. Adesso la forza di Yevon incute ancora molto timore nelle persone. È naturale, anche io ho paura. Ma non degli yevoniti.

Il cambiamento, è questo che mi inquieta.

“Grazie mille Rin, è bellissimo e molto comodo!” rispondo, con sicurezza, mentre mi esibisco in una piroetta degna di un pattinatrice professionista.

“Bisogna attrezzarsi, Macalania è molto diversa da Bikanel, non è come la nostra isola, qui fa freddo, e quei vestiti che avevi non erano per niente adatti!”

Rin, non avevo bisogno che me lo dicessi tu.

“Già. A proposito, grazie per tutti i vestiti e i maglioni, davvero grazie!”

“Ma ti pare, principessa? È stato un piacere per me, spero che tu ti trovi bene qui, il posto non è molto frequentato, potresti annoiarti…” risponde lui, con un luminoso sorriso.

Rin, piantala.

“Va bene così, zio Rin, grazie per l’ospitalità!”

Ecco, Rin non è mio zio, ma lo chiamo così per affetto, perché mi ha sempre trattata da una figlia. Già, fin da quando ero bambina. Spesso papà non poteva prendersi cura di me, era impegnato con i lavori di organizzazione nella base e mio fratello -mio fratello era odioso anche allora, e non avevo molti amici. Un mix perfetto, soprattutto se si tratta di una bambina con poco più di cinque anni, fastidiosa, rompiscatole, dispettosa, assillante e rumorosa. E vendicativa, per giunta.

Nessuno sembrava essere abbastanza disperato da educarmi.

È stato zio Rin -per disperazione o qualcosa di simile- quando tornava dai suoi viaggi a darmi la compagnia di cui avevo bisogno. Mi raccontava di Spira, mi parlava di posti oltre la Base, del mondo intero, dei suoi viaggi, e mi faceva sognare.

Papà e Rin spesso litigavano, e io mi nascondevo. Ogni volta temevo di non poter rivedere mai più Rin, di non poter più ascoltare i suoi racconti, di non poter più immaginare quel posto proibito e meraviglioso che mi raccontava. Erano tutto per me, e non volevo perdere né mio padre, né Rin.

Ma c’era qualcosa che allora papà non voleva dirmi, e pure se me lo avesse detto, non lo avrei capito.

Io -e pure mio fratello, credo, non sono sicura- ero tutto per mio padre. E temeva che un giorno io sarei andata via dalla Base. Aveva già perso una sorella, qualche anno prima che io nascessi. Era scappata via per amore, per Braska. Lo trovo molto romantico. Ma allora non avrei potuto capirlo.

Adesso capisco.

Ma sono fuggita lo stesso.

Nessuno, nemmeno mio padre, può scegliere la mia strada.

La reception è rimasta la stessa. Il bancone semicircolare in fondo alla parete, l’armadietto con le chiavi delle stanze, la stufa a carbone che riscalda l’ambiente nell’angolo, illuminando la sua grata di acciaio di un rosso vivo, il fuoco zampillante che scoppiettava allegramente sui carboni ardenti.

Mi siedo sul tappeto, appena al centro della stanza, con una tazza di cioccolata nelle mani e un libro sulle ginocchia. Non c’è molto da fare qui a Macalania, ma è così dappertutto, nessuno posto su Spira è il posto in cui dovrei essere ora. Quindi va bene anche così.

Per passare il tempo, ci sono due cose da fare: lavorare e leggere.

Ovviamente ho cominciato subito, non sopporto l’ozio, mi porta alla noia. Qualche volta do una mano in cucina, pulisco la reception e alcune stanze della locanda, ma non c’è molto da fare, i clienti sono rari, ormai sono pochi quelli che -come me- si avventurano a Macalania.

Qual era l’altra opzione? Leggere?

Papà mi aveva insegnato quel po’ per non essere analfabeta: so leggere, scrivere e parlare in Albhed, e attraverso i miei viaggi e le numerose missioni oltre Bikanel ho imparato a parlare e comprendere “la lingua yevonita”.

Non avevo mai visto un libro prima d’ora. Nella Base non ne avevo mai visto uno. Ora che ci penso, a che proposito ci sarebbero dovuti stare? Non sono mai stati scritti libri in lingua Albhed: quale editore fuori di testa pubblicherebbe un libro scritto da un pagano? Quale Albhed vorrebbe fare lo scrittore?

Quando sono passata nella libreria di Rin e ho aperto il primo volume che mi è capitato sotto mano sono rimasta senza parole.

Cosa accidenti sono questi segni?

Ho cambiato libro, ma ho trovato gli stessi simboli incomprensibili.

Ignorante, non sai leggere. Non ti vergogni?

Perché mai dovrei vergognarmi? Perché un Albhed dovrebbe saper leggere, se la sua vita intera è votata alla costruzione di macchine e alla sopravvivenza, in qualunque posto si trovi?

Papà ha imparato la lingua yevonita per necessità, quando era ragazzo, ma anche adesso non è che sia un pozzo di scienza. Quando parlava con me e mio fratello di cultura assumeva una posa strana, un ciglio severo, e ci diceva:

“Che importanza ha sapere qualcosa di cui non ti puoi servire?”

Papà, sono belle le tue frasi sono belle. Perché sono tue.

Quando Cid parla, io so che non sta citando nessun autore, non sta parlando di un opera più o meno famosa. Papà non le conosce. Papà è ignorante. Ma ha un cuore grande. Non ha mai studiato retorica, non sa niente. Ma parla col cuore. Ed è bello ascoltarlo.

A volte.

Mi ha insegnato le leggi della fisica, della dinamica, mi ha fatto lunghissime lezioni di matematica e di meccanica, fino a quando non ha ritenuto che fossi abbastanza erudita. La mia istruzione è durata fino a qualche anno fa, avevo forse dieci, al massimo undici anni.

Lo so papà, ora mi odierai, perché ti avevo promesso che non me ne sarei mai andata e tu mi hai dato tutto quello che mi serviva per vivere su Bikanel.

Ma tu mi vuoi bene, e mi hai lasciata andare, perché la vita è troppo lunga se passata in prigionia.

Sono andata via, due volte. La prima volta per salvare il mondo, per renderlo migliore. Per salvarlo. Anche se non lo conoscevo.

La seconda volta per restarci.

Forse non per sempre.

Forse finché mi andrà di restarci.

Le pantofole di tela beige, dopo tutto il tempo che sono rimaste davanti alla stufa, sono diventate bollenti quasi quanto la cioccolata. Anzi, sarà meglio berla, prima che si raffreddi.

Prendo solo un sorso, tanto per assaggiare.

Forse l’avrei dovuta zuccherare.

È calda e amara, ma se pure alle mie labbra può sembrare sgradevole, dentro mi sento riscaldata. Il mio corpo si sente gratificato per questo meraviglioso calore che si diffonde dentro di me. Non c’è niente di meglio che sentire un dolce tepore in un freddo congelante. È soddisfacente.

Almeno per il mio corpo. La mia mente non ci trova niente di gratificante, e per lei tutto resta uguale e monotono. Persino l’eccitazione di essere lontana dalla mia famiglia, di aver preso un’altra strada.

Devo trovarmi un passatempo. E al più presto.

Metto la tazza colma a metà sul tappeto, incrocio le gambe e apro il mio libro. Lo avevo preso a caso dalla libreria. Visto che non so leggere, non ci dovrebbe essere differenza tra questo o un altro libro. Ma questo aveva una miniatura sulla copertina, il disegno di una casetta in un bosco, e due bambini sull’uscio della porta. Mi è sembrato grazioso, e l’ho preso, sperando che ci siano delle figure che posso guadare mentre fingo di leggere.

….

Sì, ci sono delle figure, delle stampe in bianco e nero, altre invece colorate e vivaci come dei dipinti. Sono enigmatiche ma allo stesso tempo molto affascinanti, e per lo più raffigurano graziose fanciulle e boschi fatati, luoghi d’incanto e cavalieri coraggiosi.

Un libro di fiabe.

Lo sfoglio con foga, girando le pagine con violenza, con gli occhi che schizzano da pagina a pagina, liberi dalla stretta tenace delle parole. Ma non serve ormai, la consapevolezza arriva in pochi istanti, e il mio cuore si riempie improvvisamente di gioia.

Un libro di fiabe? Un libro di fiabe!

Ho sentito dire in giro che i genitori raccontano delle storie ai figli per farli addormentare la sera. Per me è ancora un mito, una figura simbolica quella del genitore seduto sul letto del proprio bambino a raccontargli una favola. Forse perché a me non è mai successo. Mi chiedo perché. Magari perché di solito sono le mamme ad occuparsene.

E io la mamma non ce l’ho.

Per questo nessuno mi ha mai raccontato una fiaba per farmi addormentare, per questo non conosco nessuna ninnananna, o cose del genere. È normale. Papà non è tipo affettuoso in modo esplicito, e poi è una persona impegnata. Ma da piccola non lo capivo.

Ci sono tante cose che non capisco tutt’ora…

Sono cresciuta col desiderio di leggere un libro di fiabe, di poterne sfiorare le pagine, di riporlo nelle mani di una persona cara e di ascoltare, immaginando e riproducendo le parole una dietro l’altra nella mia testa, fino a dipingere nei miei pensieri ogni foglia del bosco, ogni piega del mantello del principe, ogni scintillio della corona della principessa.

Sono la ragazza più ricca di Spira.

Oggi la locanda è completamente disabitata. Non c’è nemmeno un cliente, non uno spiffero in giro. È tutto anche troppo silenzioso. La noia prende il passo nel silenzio, e si impossessa dei miei pensieri, dirigendoli al passato. Ancora non mi sono arresa al potere che i ricordi hanno su di me. Penso che non lo farò mai. Ho ancora abbastanza forza di volontà dentro di me. Quella non è mai mancata. Anche quando mancavano i mezzi, la forza fisica, o la speranza, la volontà ha sempre animato le mie intenzioni.

Ho voltato per un attimo lo sguardo verso la finestra: il vento sbatte la neve con violenza contro i vetri freddi come di ghiaccio.

La natura. Che potenza, che forza. Io, seduta sul morbido divano, nella stanza riscaldata, con la mia felpa azzurra sulle spalle, mi sento fortunata e superiore alla natura, quasi.

Poi, lascio il mio libro sul cuscino e spalanco le porte della locanda.

“Ma sei impazzita?!” mi urla sconvolta la cameriera che, seduta dietro al bancone, stava bevendo un caffè caldo. La cosa non mi sfiora minimamente e comincio a correre, come in preda alla follia. Corro nel pieno della tempesta, affondando le scarpette di tela nella neve, stringendomi nella mia giacca azzurra.

Rin è in mezzo alla neve, carino di buste e di merce. Lo raggiungo in quattro salti, cercando di non affondare nella neve, e gli prendo dalle spalle più della metà del suo carico e corro nella direzione opposta, con le buste nelle mani e sulle spalle.

Sono diventata più forte e resistente dopo il pellegrinaggio. Riesco a portare pesi sempre più massicci, anche se le mie spallucce da uccellino sembrano tutt’altro che forzute e posso correre più velocemente, tanto che tra un po’ mi assumeranno per fare le corse coi chocobo.

Apro le porte della locanda con un calcio ben assestato, scaraventando di lato la povera cameriera che cercava di chiuderle per il troppo gelo che stava invadendo la casa, e appoggio a terra, con non troppa delicatezza, le numerose buste di Rin.

“Padrone! Già di ritorno?” esclama sorpresa l’inserviente, prendendo in fretta il cappotto bagnato dalle spalle di Rin. Lui è felice e soddisfatto, deve aver fatto qualche affare importante, non si lamenta, anche se ha dovuto affrontare una tempesta di neve di quel calibro e con tutte quelle buste sulle spalle. Dopotutto, i trasporti si fermano all’imboccatura per Bevelle, non passano per il bosco.

“Rikku!” esclama lui, con tono alterato “Ma cosa ti è preso? Sei corsa in mezzo alla neve in vestaglia! Ma guardati, sei tutta bagnata! Ti prenderai una polmonite!”

Rin, io ho collaborato a sconfiggere Sin. Non so se te ne rendi conto. Queste cose sono bazzecole per me, ormai. Ne ho passate tante.

“Sto bene…” sbuffo io, grattandomi la testa.

“Vai subito a cambiarti signorinella, altrimenti niente regalo!”

Un regalo? Per me?

“Volo!”

Attraverso quasi fluttuando il lungo e stretto corridoio, facendo attenzione a non scivolare -la cameriera passa ogni tre giorni la cera sul pavimento, è più facile pattinare in corridoio che sul ghiaccio- e mi fermo davanti alla porta della mia camera.

Spingo la maniglia. Ecco la mia stanza.

Spaziosa, non c’è che dire, e sempre riscaldata. Il pavimento è bianco mentre i muri sono tinteggiati di un bel tono di azzurro. C’è un letto a due piazze su un lato, mentre sull’altro c’è un grosso armadio di legno blu, tipico degli alberi del bosco di Macalania. I miei nuovi vestiti sono in una cassettiera ai piedi del letto. Maglie e pantaloni sono stati stipati ordinatamente sui due lati della cassapanca, mentre l’intimo e le calze di lana sono divisi nei cassetti vicino al letto.

Mi tolgo prima il maglione azzurro, poi la maglia rossa e la canottiera. Sono tutta bagnata. Magari prima di andare a dormire dovrei fare un bagno.

Ci penserò dopo.

Intanto mi devo cambiare da capo a piedi, non c’è niente di quello che indosso che sia asciutto. Prendo dalla cassettiera una maglia grigia con una stampa colorata e un paio di pantaloni blu molto larghi. Lascio i panni bagnati sulla stufa, sperando di ricordarmi di toglierli prima che si brucino, e avvicino le scarpe alla fiamma il più possibile, per farle asciugare.

Corro di nuovo lungo il corridoio, il tessuto delle calze di lana non fa attrito sul pavimento, devo rallentare il passo.

“Ci hai messo poco, principessa…” mi dice Rin, affettuosamente, porgendomi un pacco dalla carta color pistacchio. L’incarto è quasi sofferente, il tentativo -inutile- di spiegazzare un foglio colorato intorno ad un pacco di robusto cartone, con un nastro dorato sul lato. Probabilmente è stato Rin a fare questo tentativo di confezionamento.

Ora ci penso io.

Non ricevo molto spesso dei regali. Per il compleanno, certo, papà mi faceva sempre dei pensierini deliziosi, ma erano regalini così, da consegnarsi mano nella mano, senza incarti, nastri, o pastrocchi vari. Era quello che desideravo, quello che avevo sospirato tanto a lungo, che si trattasse di una bambola o di una ruota tentata.

E anche se papà me li avesse consegnati in uno scatolo infiocchettato, io avrei sempre saputo cosa contesse, perché era quello che io desideravo per davvero. Ed era questo il problema. Erano dei regali previsti, per i quali il giorno prima facevo già spazio nella mia cameretta. Mai una sorpresa, mai qualcosa di inatteso, di imprevisto, mai un regalo che io non avessi già programmato. Di quelli, non ne ho ricevuti molti. Una volta, Gippal mi regalò una chiave inglese infiocchettata con un nastro rosso, tipo coccarda, pur sapendo che premevo con ansia per ricevere un cacciavite a stella. Mi infuriai tantissimo e credo di avergli lanciato la chiave inglese sulla nuca. Ce l’ho ancora con lui. Oh si certo, si è fatto carino, è diventato un gran bel ragazzo, e so che ama molto la compagnia femminile, ma non lo perdonerò mai per quello scherzo che probabilmente non ricorda nemmeno e, se pure un giorno se lo ricordasse, ne riderebbe soltanto.

Disgraziato.

Sciolgo il nastro, trattenendolo nella mano, e strappo il nastro adesivo con cura, per mantenere intatta la carta da regalo. Tiro con delicatezza la scatola dalla carta verde, ancora spiegazzata, martoriata dal nastro adesivo.

È un parallelepipedo di cartone di colore rosa chiaro, dal fronte spazioso e non molto grande in spessore. Sorrido, commossa. È bellissimo. È un pacco regalo proprio come lo avevo sempre immaginato. È come essere entrata un’altra volta in un sogno, e ho paura che tutto possa smaterializzarsi sotto le mie mani, come nei miei sogni più profondi. Le dita si stringono improvvisamente sul cartone rosa confetto, e mi sento emozionata, intenerita da questo gesto inaspettato e meraviglioso. I miei occhi si riempiono di un riflesso rosa pallido, come sangue scialbo, che mi imprigiona e mi trattiene le pupille.

Rin mi guarda con un sorriso.

“Dentro è anche meglio. Spero di aver preso la taglia giusta…”

Forse dovrei aprirlo. Ma io non mi muovo. Non ho la forza. Questa vista è troppo meravigliosa per essere reale, mi voglio accertare che questo non sia semplicemente un sogno come gli altri, pronto a lasciarmi al mio risveglio. E se non è un sogno, forse dovrei ringraziare qualcuno, forse dovrei saltare al collo di Rin e abbracciarlo, come succede nei romanzi più conosciuti. Ecco perché li odio tanto. Sono così inverosimili. Nessuno farebbe mai una cosa del genere. Almeno a me, non mi riesce

Rin mi guida le mani e apre al posto mio la scatola, mettendo il coperchio nella parte inferiore del pacco, perfettamente ad incastro. C’è una carta tra il bianco e il trasparente che copre il famigerato regalo.

Questa volta, sono io a spostarla di lato. Sfoglio le due pieghe leggere senza troppa cura. Ho tanta voglia di sorridere, adesso.

Ho preso una decisione. Qualunque strada io scelga, devo sempre sorridere. Qualunque via sulla quale il destino mi trascinerà, deve portarmi tante novità, tanti motivi nuovi per sorridere. Non un sorriso qualunque. Un sorriso vero, la felicità dello scartare un regalo inatteso, la scoperta di un posto nuovo, ma in modo particolare, la gioia di poter sempre inseguire i miei sogni.

Anche correndo in balia di una tempesta di neve in pigiama.

Un fine odore di fumo e di bruciato raggiunge lentamente la reception.

“Hai messo qualcosa sul fuoco? Cosa stai cucinando?” chiede Rin, confuso. La locandiera agita la testa, con gli occhi sgranati mentre fuggo velocemente in corridoio. Spero sinceramente che ci sia un ricambio nella cassapanca, perché i miei vestiti stanno andando a fuoco.


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