[Fan Fiction] L’intollerabile peso di un fiocco di neve : Capitolo 3

Non temere, sarà un viaggetto breve, devo solo dare un?occhiata a degli affari alla Piana della Bonaccia e poi farò ritorno a Macalania, il più presto possibile.?

Tornerò presto.

Mi hanno accolto queste parole, al mio risveglio. Rin è già partito da un pezzo, e mi ha lasciato un biglietto legato alla zampetta di un moguri di peluche, che mi aveva infilato sotto le coperte, al mio fianco. Un altro regalo inaspettato, bellissimo, che mi ha costretto a letto fino a quando non è stato giorno inoltrato. Ma tanto a chi poteva importare? Sono stata chiusa in una stanza al buio, senza finestre, senza rumore, senza vita, per un tempo indeterminato tra i cinque secondi e le due ore.

Nessuno mi ha chiamato, nessuno ha avvertito la mia assenza.

Sono rimasta seduta sul morbidissimo materasso di piume di chocobo, con il moguri sulle ginocchia e il biglietto stretto nelle mani, ad immaginare nella penombra la calligrafia irregolare di Rin, tipica di tutti gli Albhed, a sforzare gli occhi nel buio della mia stanza.

Sono rimasta a lungo in silenzio, nella più piena contemplazione di quel nulla ingombrante e assoluto, del vuoto intorno al mio letto, unica isola in un mare di silenzio, annegando nella noia, nella meditazione.

Poi ho sentito gli occhi pizzicare e non trattengo una bestemmia che si espande, libera e beata, nel silenzio tangibile della mia camera.

La locandiera è una persona assolutamente deliziosa. Rin mi ha lasciata da sola in questo meraviglioso buco ghiacciato apposta per farmela apprezzare.

Dopotutto, la solitudine ti porta ad apprezzare anche le persone che detesti, e ti aggrappi a cose che prima avresti rifiutato. L?abbandono porta a fare l?impossibile, cose che chi non ha mai provato tale sensazione non potrebbe mai comprendere. Non mi aspetto la comprensione di nessuno. È giusto. Perché io stessa per prima non capisco i problemi degli altri. Gli Albhed sono un po? come naufraghi del mondo, si aggrappano a qualunque cosa, pur di restare a galla e di non affondare nei ricordi, nella disperazione.

I ricordi sono solo ricordi. E basta. Non possono più ferirmi. Non vivo nei ricordi, né per essi.

Sono un monito, eppure sono parte di me.

Rifletto su queste verità da sociopatica davanti ad una tazza di latte con tutta probabilità avvelenato; non mi fido di quello che mi prepara la cameriera, ho come l?impressione che mi voglia togliere di mezzo, mi voglia distruggere. Forse perché sono un po? vivace. Ma in fondo sono un?anima pacata.

Pacata come un barile di behemut.

Mi infilo un biscottino in bocca, deliziandomi col suo sapore dolce e la sua fragranza. Buonissimo. Di questo passo mangerò solo biscotti. Sì, e comincerò a prendere peso e allora potrò dire di sembrare una persona normale, con normali problemi di linea e con un peso non sotto la media.

Mentre la locandiera è di spalle, verso la mia tazza di latte nel vaso della pianta quasi morta sul bancone, ed ecco, ho finito di fare colazione.

?Già finito??

Sì, ti aspettavi che cadessi a terra contorcendomi dal dolore? Non ho preso il tuo stupido latte avvelenato. Non sono così stupida. Non mi lascio ingannare così facilmente; dopo tutto quello che ho passato non voglio morire per mano di una cameriera folle.

?Penso che andrò a fare una passeggiata, oggi c?è sereno?

Ovviamente per sereno intendo che fuori non sta sfuriando una tempesta di neve, grandine o che altro. C?è un sole giallognolo nel cielo livido e plumbeo di Macalania. Si specchia nella finestra della reception, ma i suoi deboli raggi quasi non riescono a trapassare il vetro opaco dalla neve, e la stanza resta in un?eccitante penombra.

La locandiera prende la tazza e la scatola di biscotti per riportarli in cucina, mentre io mi dirigo nella mia stanza per vestirmi. I miei calzettoni sul pavimento emettono un rumore felpato, un struscio appena, e non supera il rumore della teiera che fischia.

Mi fermo un attimo, tanto per vedere il mio riflesso nella specchiera nel corridoio: a Bikanel non ci sono specchi. Sì, perché noi Albhed pensiamo che siano cattivi. Una leggenda racconta che dentro ogni metallo riflettente ci viva un mostro che, se resti troppo a lungo davanti allo specchio, ti cattura e ti trascina via. Sono credenze che circolavano allora, storie che tutti temevano e che raccontavano a bassa voce, storie a cui nessuno crede, ma mai ho visto uomo o donna che si ostentasse a possedere uno specchio ed usarlo.

E anche io, pur essendo restia a credere alle antiche leggende del mio popolo, mi guardo dal fissarmi per più di qualche secondo. I mostri dell?infanzia tornano. Tornano sempre.

Lo farò con parsimonia, non più di sessanta secondi. Nessuno lo saprà.

E in quello specchio spudoratamente pulito, per pochi istanti mi fissa una figura sottile, il viso paffuto un po? da bimba, con due trecce bionde che arrivano appena sulle spalle, non oltre.

Nessuno principe si potrebbe aggrappare a queste trecce. Inutile pensarci. Resterò per sempre nella torre, nessuno verrà mai a salvarmi.

Un timido bussare frettoloso mi spinge dal divano verso la porta. Apro faticosamente il grosso portone di legno e i cardini cigolano pesantemente, irrigiditi dal gelo.

Compare un ragazzo. Alto, robusto, bruno. Vestito da miliziano. Lo guardo con occhi sgranati, non credevo di vedere un?effige così viva e pulsante della guerra da queste parti, che il tempo sembrava aver allontanato dalle risse e dal dolore. Persino da Sin.

?Venite entrate? mormoro, stringendomi nel maglione per il gran freddo. Il ragazzo non parla, non sorride, non si esprime. Si muove a piccoli passi, lenti e silenziosi, e si siede su una sedia sgangherata davanti alla stufa, a massaggiarsi le mani davanti alla brace. Mi avvicino, con le braccia lungo i fianchi da bambina, e gli chiedo se prende qualcosa.

?Solo un the. Caldo?

Brutta idea amico, brutta idea.

Ritorno con una tazza di the per il cliente e un piatto di dolci glassati per me. Ho voglia di metter su qualche chilo, anche se col freddo si bruciano più calorie.

Così sembrerebbe. Se è vero invito Wakka a farsi un week end nel gelo assoluto di Macalania. A sue spese, ovvio.

Continuo a fissare il miliziano, e poi glielo chiedo.

?Che ci fanno i miliziani qui? Non dovreste essere tutti a Bevelle??

Stupida Rikku, stupida Rikku.

Il ragazzo guarda malinconicamente il liquido screziato di un maleodorante color verdastro.

?Ho lasciato la Milizia dopo l?operazione Mihen?

Già. L?operazione Mihen. Che catastrofe. Tutti i miei amici che ho salutato sulle rive di Bikanel che ridevano come se stessero andando ad una partita di bliztball. Così sorridenti non se ne vedono tra gli Albhed in tempi di guerra. Erano forti, erano speranzosi.

Ho visto la loro nave allontanarsi dal caldo mare della nostra isola e scomparire nell?oceano.

Sono morti tutti.

Gli tendo la mano, con un magnanimo scatto di altruismo. ?Rikku?

Lui mi fissa per qualche istante, poi me la stringe con riconoscenza ?Gatta, piacere?

?Sei uno dei sopravvissuti??

?Uno dei pochi. In verità non ero sul campo di battaglia. Ero nella retroguardia. A controllare il passaggio?

Sembra molto pensieroso. Fissa con gli occhi vuoti il fuoco scoppiettante, rilucente nella stufa di metallo.

Sgranocchio un dolcetto, passandomi lungo il palato la glassa, dolce e saporita.

?Volevo combattere in prima linea, al fianco del mio migliore amico. Povero Luzzu, non meritava quella fine indegna, spero che abbia trovato la pace nell?Oltremondo?

?Adesso il sogno di tutti loro si è avverato? mormoro io, sovrappensiero. Lui annuisce, prendendo un sorso di the.

?Tu c?eri?? mi chiede Gatta, ansioso. Io scuoto la testa. Avrei voluto tanto seguire i miei amici a Doje ma mio padre me lo impedì categoricamente. Chissà perché, probabilmente sentiva che le manovre di tutti i miliziani non sarebbero bastate.

?Io mi sono salvato solo per fortuna. Volevo raggiungere gli altri in combattimento, ma prima che arrivasse Sin mi dissero che se volevo essere un degno soldato avrei dovuto adempiere prima agli ordini che mi erano stati dati??

Strabuzzo gli occhi per la sorpresa. Qualcuno avrebbe dovuto dirlo anche a me, visto che spesso non sono un soldatino così obbediente. Caspitacchio, perché non ne sapevo niente? Esiste una verità ineccepibile per tutti i soldati un po? ribelli e io non ne sapevo nulla?

?E chi te lo ha detto questo??

Lui sorride, emozionato. ?Non mi crederai se te lo dico. E? stato sir Auron in persona!?

Tsk. Auron. Probabilmente nemmeno sapeva cosa si provava a ribellarsi agli ordini ricevuti. Sono sicura che nella sua vita abbia solo preso ordini: dalla famiglia, sotto le armi, da Yevon. Da sé stesso.

Che senso del dovere ammirabile! Che carattere noioso!

Gatta deve aver notato la mia espressione contrariata -come non notarla?- perché mi apostrofa con un intollerabile ?Lo conoscevi??

?Ho sentito parlare di lui?

Gli Albhed mentono. Io sono Albhed. Io mento. Buon sangue non mente. Notato il gioco di parole?

?Chissà che fine ha fatto!? si chiede, prendendo con ammirabile coraggio un altro sorso di the. Antenati, ora sorreggetemi, mi sta salendo il vomito. ?Nessuno lo ha più visto dopo la sconfitta di Sin? sorride tra sé e sé e io lo odio, lo odio, lo odio. ?Scommetto che lo rivedremo presto, come dieci anni fa. Tutti lo davano per scomparso, morto addirittura, invece è tornato?

Su questo non si discute. Compariva dal nulla il maledetto non trapassato.

Mi alzo, prendo dal mobile una bottiglia di liquore e due bicchieri. Non ho idea di che liquore si tratti, non so nemmeno se è buono o meno. Il bicchiere si riempie di un liquido dal profumo intrigante, di un colore vicino al verde smeraldo.

Sorrido, tendendogli uno dei bicchieri.

?Propongo un brindisi. Agli amici caduti. Offro io?

Gatta prende il bicchiere con gratitudine, e li solleviamo in aria, facendoli scontrare piano.

Questo brindisi non è per te, disgraziato.

Qualche ora dopo sono arrivati altri due clienti. Giornata di punta per la casa del viante, oggi! Si tratta di due ragazze, forse più grandi di me, due ventenni credo. Una è un?ex invocatrice, e al suo seguito ha una serva, si dirigono a Bevelle.

Appena arrivo alla reception, la locandiera mi mette un vassoio nelle mani e mi spinge verso il bancone, dove sono sedute le due ragazze. Senza dire una parola, appoggio il vassoio sul tavolo e porgo loro le due tazze di the fumante, lo stesso the per cui la teiera prima stava per esplodere.

Le guardo: l?invocatrice ha lunghi capelli rossi e due occhi verdi splendidi, grandi e luminosi. La pelle bianca come il latte, senza nemmeno un punto o un graffio. Sembra disegnata con un pennello, quasi non sembra vera. Il kimono azzurro le sta d?incanto, sembra una principessa. Anche se probabilmente Auron non avrebbe mai apprezzato un?invocatrice così sofisticata, si tratta comunque di una persona che avrebbe dato la propria vita per il mondo.

Ma a chi importa il parere di Auron adesso? A me no di certo!

Un brivido mi percorre la schiena. Abbiamo messo fine a questa storia, per fortuna.

La serva è una ragazza più o meno della mia età, coi capelli biondi raccolti in una crocchia dietro la testa, e le vesti umili. Ha lo sguardo basso, e le mani rovinate e scorticate. Guarda con ansia la sua tazza di the, lasciando vagare i suoi pensieri nel vapore di erbe e foglie varie. Il the albhed non è molto raffinato anzi, è quanto di più schifoso esista su Spira, sa di medicina e di vecchie erbe bollite e, infatti, lo bevo solo quelle rare e disgraziate volte in cui mi ammalo.

Penso che la giovane ex invocatrice ce l?abbia con me. Mi guarda con sguardo torvo, piena di superbia. C?è qualcosa che la disturba, del mio essere, oppure della mia stessa presenza. Improvvisamente non sono degna di sedere al suo tavolo. Sono una formica, sono invisibile.

No, peggio, sono un?Albhed.

La ragazza mi guarda negli occhi, e basta quello sguardo superbo di sfuggita per scoprire la mia identità, il mio segreto. È frustrante come una persona possa odiarti dal momento in cui ti ha guardato negli occhi. Come se gli occhi potessero dire quello che hai dentro, quello che porti nel cuore.

Maledetto sia colui che ha detto che ?gli occhi sono lo specchio dell?anima?. Gli occhi non sono lo specchio di niente, non dicono nulla su di me, hanno unicamente una funzione visiva. E per alcuni, una funzione anche estetica.

I miei occhi mi condanneranno sempre, perché quelli che li guardano pensano che in quelle spirali sia nascosto il mio cuore. E nessuno metterebbe qualcosa di così prezioso alla portata di tutti.

Le due ragazze parlano fittamente tra di loro, nella loro lingua, in un continuo cinguettio, e io le ascolto, fingendo di non capire quello che si stanno dicendo, guardando con poco interesse una tazza di the vuota. L?invocatrice si sta lamentando per essersi fermata in una locanda Albhed e io trattengo ogni mia patetica convinzione sulla morale, canticchiando mentalmente.

?Ma signora-?

?Non c?era proprio niente di meglio??

?Signora, è Rin che controlla le case del viante, non ci sono altre locande su Spira-?

?Ci hai fatte rallentare! Se avessimo continuato, a quest?ora non saremo qui!?

Esplodo. Non posso trattenermi oltre.

?Non vedo dove sia il problema!? irrompo io, con aria sicura di me. La giovane invocatrice -aristocratica dovrei dire, i veri invocatori non sono così- spalanca gli occhi e mi fissa con aria sbalordita. Non si aspettava che io conoscessi la sua lingua, e godo nel mio profondo delle mie poche ma ben radicate conoscenze di lingua. Godo del suo sbalordimento, della sua meraviglia.

Con un gran moto di superbia, la giovane volta la testa e lascia la tazza di the piena a metà sul bancone, decisa ad andare via con a sua serva.

?Prova a guardarmi per un istante, se ne hai il coraggio!?

Lei si gira verso di me, guardandomi con sufficienza, e io mi sollevo i capelli, prima sciolti, in una coda. Lei mi guarda spalancando i suoi grandi occhi color natura.

Mi hai riconosciuta?

?Ma tu sei-?

?Sì, sono la guardiana di Lady Yuna.?

Ho dovuto fare uno sforzo immane per chiamarla Yuna. Mi fa male alla gola pronunciarlo. Sarà per dialetto o abitudine? Non lo so, il risultato è questo. Un misto di affetto e di accento. Di amore e di abitudine.

L?unione di due cose diversissime, perché, se so qualcosa dell?amore, è che non è dettato dall?abitudine. E? libero, è un?istituzione fuori dal tempo e dallo spazio, supera confini infiniti e raggiunge luoghi lontani, è quel potere che trattiene le lancette dell?orologio e le fa andare più lentamente. È imprevedibile, non ti puoi abituare all?amore.

Quindi, una ragazza vissuta fuori dal mondo, dove ogni giorno è uguale a quello di prima, ha forse vissuto una vita senz?amore?

La locandiera -sia lodata la locandiera- ha subito bloccato la discussione sul nascere, e la cosa mi ha fatto enormemente piacere, visto che non ho granché voglia di fare discussioni, né la forza di rispondere o di riflettere. Mi ha messo i bagagli delle due ragazze nelle mani e mi ha indicato la stanza in cui avrebbero alloggiato, pur di allontanarmi dal campo di battaglia, un po? come era solito fare Auron quando non mi voleva tra i piedi.

Sì, è esattamente lo stesso modo. E ciò mi ha fatto sorridere. Solo un po?. Io odio quell?uomo.

Sono nervosa e fremo per la rabbia, nascondendo il viso nei capelli, sperando vivamente che quelle scialbe ciocche bionde mi finiscano negli occhi, almeno così non potrò più vedere lo sguardo di una persona che mi riconosce, mi condanna, solo per la mia razza.

Con tali pensieri da -si, lo ammetto- depressa, apro la porta di legno azzurro con un calcio ben assestato, e butto in malo modo i bagagli sul pavimento provocando un tonfo sordo, che rimbomba solo nella stanza. Dalla borsa più grande e pesante cadono alcuni indumenti e io, fumando di rabbia, mi limito ad arrotolarli disordinatamente nella valigia.

Poi lo vedo.

È un kimono azzurro. Lungo, sottile, di una stoffa forse un tempo pregiata, ora abbastanza logora, come un bellissimo vestito da sposa rimasto a marcire in un armadio, sommerso dalla polvere e mangiato dagli acari. Non sembra nemmeno tanto preziosa, a pensarci bene.

Forse è per questo motivo che, dopo aver rimesso tutto quel che era caduto al proprio posto nella borsa della ragazza, ho avvolto la veste sotto il maglione e sono tornata di corsa alla mia stanza, per chiudermi silenziosamente, ma con violenza, la porta alle spalle.

Mi sono seduta per terra, con la schiena contro la porta di legno, le mani rigide e tremanti sul pavimento gelido, il kimono trafugato sotto il maglione di lana a fasce bianche e blu.

Non piango, so che sarebbe inutile. Trattengo un urlo di frustrazione e un grido di soddisfazione, sono così contrastanti questi sentimenti che si sfiorano, si toccano e si uniscono, mi solleticano il diaframma e tutto diventa un bruciore insopportabile, un peso intollerabile, un dolore insostenibile. E come ogni dolore non fisico, si espande in ogni punto del mio corpo, dentro e fuori, appoggiandosi di peso sulla pelle e infilandosi viscidamente appena sotto. Ovunque.

La consapevolezza. Il pensiero che la refurtiva era lì, sulla pelle nuda, e bruciava come una lingua di fuoco, pizzicava da morire e pungeva come un Kyactus inferocito.

Penso che tutto cominciò da un biscotto, o da una mela, come nelle favole. Come tutti i bambini, un po? per ingordigia, un po? per necessità, rubacchiavo con costanza dei dolcetti da una scatola che papà aveva messo nel mobile più alto della sua stanza. Ne prendevo uno ogni settimana e ne mangiavo un pezzetto ogni giorno, in modo che durasse una settimana, quando ne avrei rubato un altro.

Dopo i biscotti, cominciai con la frutta, con un chicco d?uva, poi due, tre, fino a rubare porzioni sempre più grandi. In breve, credo, diventai una ladra esperta, all?età di cinque anni, quando i bambini dovrebbero solo giocare o sognare.

Poi l?abilità si trasformò in abitudine e fu in quel momento che tutto cambiò. Non rubavo più per fame, o per necessità. Rubavo per il piacere di farlo, perché se trovavo una cosa, non serviva chiedere se potevo averla, ma bastava invece allungare il braccio e ficcarmela in tasca, facendo finta di niente.

L?ho fatto. E l?ho rifatto. Tante volte. E ogni volta mi sono promessa di non rifarlo mai più. C?è qualcosa di vuoto e di frustrante quando si cade con costanza nello stesso errore e promettersi ogni volta di resistere, di non farlo più. E intanto la consapevolezza dell?inutilità di quelle promesse si impossessa di te, ti sbatte, perché ormai sei diventato suo schiavo.

Prima di andarsene, qualche ora più tardi, la giovane aristocratica dai capelli meravigliosi mi saluta con un inchino e con un sorriso di cortesia, di quelli che si rivolgono alle persone importanti e, seguita dalla sua serva, ritorna sulla strada per Bevelle. Mi raccomanda di salutare Lady Yuna per lei e mi augura tanta felicità e fortuna.

Mille grazie, ma non mi serve. Qui, scoppio di felicità.

Ho rimandato per il freddo la mia piccola esplorazione nei dintorni che avevo programmato questa mattina; la temperatura sta calando terribilmente e preferisco riprendere il mio libro di fiabe e sdraiarmi a leggere sul tappeto davanti alla stufa. Sono sicura che non ci sia a Macalania cosa di ugual piacere.

Ho preso anche qualche foglio e delle matite colorate trovate qua e là.

Il disegno mi ha sempre affascinata, anche se le mie opere possono considerarsi peggiori dei disegni di un bambino che ha appena imparato a tenere in mano la matita.

Sto provando a copiare una miniatura di Raperonzolo dal mio libro di fiabe quando tutto cambia e una tazza odorosa di gelsomino si posa accanto a me, sul tappeto. Alzo gli occhi e incontro lo sguardo benevolo della locandiera, che sorride dolcemente.

Penso di non averla mia vista prima d?ora, è come incontrare un amico di vecchia data dopo anni e anni. e fa uno strano effetto, visto che non la conosco affatto. Ha dei bei capelli biondi, avvolti in lunghi boccoli, fermati dietro la testa con un fermaglio. Indossa una lunga gonna azzurra e uno scialle di lana sulle spalle. Sembra una principessa. Aggraziata ma non superba, amabile e non tracotante.

?Così è vero che sei la guardiana di Lady Yuna. Quando ti ho visto la prima volta non ci ho creduto, pensavo che il padrone mi stesse prendendo in giro. È incredibile-?

Già, è incredibile che una bambina abbia accompagnato un?invocatrice e abbia lottato contro Yevon.

Sinceramente, non credo di aver fatto molto. Certo, per la mia età ho fatto tanto, anche troppo, ma io non sono stata una brava guardiana. Penso di aver fatto tutto quel che era nelle mie possibilità, e nonostante tutto è stato sempre troppo poco. Questa consapevolezza mi rode dall?interno.

?Cosa ti ha spinto a diventare guardiana??

Per la prima volta non so cosa rispondere. Ci ho pensato tanto, e la risposta dovrebbe essere più che ovvia. Allora perché non lo è?

?I motivi sono tanti. Yuna è mia cugina, e non potevo permettere che morisse, non potevo continuare a vedere quei sacrifici senza reagire. D?altro canto, speravo che il mio ruolo di guardiana servisse anche a riscattare l?onore di tutti gli Albhed e diventare liberi-?

?Per questo ti sei arrabbiata con quella cliente oggi??

Io la fisso, senza esprimermi.

?Naa? rispondo io, con superficialità ?Non mi sono arrabbiata, c?è di peggio?

Lei sorride; il viso pallido, i lunghi boccoli biondi dietro la schiena.

?Dimmi una cosa: come ti chiami?? le chiedo io. Ecco, questa era una cosa che prima non mi interessava minimamente, ma adesso che sono sola -in sua compagnia- mi sembra normale sapere il suo nome. Ora sono subentrati dei bisogni che prima ignoravo completamente.

Lei sorride ancora, radiosa. Non è più la mia aguzzina, la mia carceriera, sembra un?altra donna, come se il lavoro le avesse donato un?altra faccia.

?Miriam? proferisce.

Sorrido. È un nome tipicamente Albhed. Significa ?goccia d?acqua?. Ricordo che molte mamma mettevano questo nome alle figlie nei periodi di siccità. Abbastanza stupido se l?intento delle madri era quello di far venire la pioggia.

Il mio nome lo scelse a suo tempo mia nonna, quando mi prese dalle braccia morenti di mia madre, che era spirata senza conoscere il mio nome, conoscendomi unicamente come la-creatura-che-le-ha-tolto-la-vita. E poi mi chiamano fortunata. Sì, Rikku significa proprio questo.

?Da quanto tempo lavori per Rin??

?Da un po?, forse un paio di mesi, anche meno. Lo faccio per vivere, non saprei dove andare altrimenti. Purtroppo Sin mi ha ucciso i genitori e sono rimasta allo sbando. Vivevo a Kilika, in una capanna lungo riva del mare. Quel giorno non ero al villaggio. Sin arrivò dal mare e distrusse tutto, non risparmiò niente. La mia casa era stata rasa al suolo, se l?era portata via il mare, e della mia famiglia non era rimasto nulla?

La sua voce si è incrinata e i suoi occhi sono umidi, ma non piange, come se ormai abbia fatto abitudine a quel dolore, a quel pensiero. Sì, il dolore almeno ci permette di abituarci, in modo da soffrire di meno quando avremmo scontato la nostra pena.

?Sono partita da Kilika. Mi sono imbarcata sul primo naviglio che ho trovato e sono andata via. Intendevo cercare un lavoro, oppure una comunità Albhed che potesse accogliermi. Poi un giorno mi sono fermata in una locanda sulla via Mihen e mi sono innamorata di un ragazzo, il mio fidanzato. E sono rimasta lì.?

?Cosa ti ha portato a Macalania??

Sì, lo so, sono un?incredibile ficcanaso. Ma, visto che sto tenendo una conversazione seria e toccante con una persona che detesto, mi sento stranamente in dovere di approfittare il più a lungo possibile di questo suo improvviso momento di loquace magnanimità.

?Rin mi ha offerto un posto di lavoro perché gli mancava personale qui a Macalania. E, dato che io e il mio fidanzato stiamo organizzando il nostro matrimonio, mi servono soldi. Rin mi paga bene e mi dà un posto dove dormire?

Già. Sai Rin, non ti facevo così generoso.

Cala il silenzio. Non c?è più niente da dire e l?incanto di loquace magnanimità è svanito. È come se avessimo aperto una parentesi sul nostro passato, sul mio e sul suo, e che questa parentesi si sia appena chiusa. Non mi facevo così noiosa e silenziosa. Basterebbe una parola, qualsiasi parola, per spezzare questo silenzio. Ne basterebbe una.

Ma non esistono altre parole che potremmo dirci.

Mi alzo, in religioso silenzio, dal tappeto, stringendo il libro di fiabe al petto, mentre Miriam resta seduta sul pavimento, con lo sguardo perso. Ma non sta guardando me, sta guardando i suoi ricordi. Credo di sapere cosa si prova, quando regali un attimo del tuo presente per guardarti scorrere tutta la vita davanti, ricordi belli o brutti che siano, sono la nostra vita.

Non sono un esempio di albhedezza, lo ammetto.

Mi limito ad augurarle la buonanotte e sparisco in corridoio, godendo il più possibile del ciabattare delle mie scarpe di tela sul pavimento. Questo suono fastidioso è diventato quasi una melodia dolcissima per le mie orecchie, quando di sera nemmeno il vento ha il coraggio di ululare nell?aria notturna.

Ora ne sono convinta.

Il mio apparato acustico non è compatibile con il silenzio.


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