[Fan Fiction] The Rising of the Moonflower – Capitolo 5

Il nome di quel fiore era “moonflower”.
Era una specia particolare, di giorno i petali restavano chiusi, di notte si aprivano sprigionando un leggero bagliore che li rendeva unici.
Erano i miei preferiti, capaci di tirarmi su il morale, anche nei momenti più bui. Ma quella sera non c’era bagliore che tenesse contro la tristezza che provavo.
Ero nel mio campo speciale, nel nostro campo speciale, nella stessa posizione in cui ero quando lui mi disse quelle fatidiche parole. Seduta, vicino al ruscello, con il fiore in mano.
Quella sera non erano in molti ad essersi aperti, solo pochi solitari petali brillavano qua e là. Specchi del mio essere solitario.
Non avevo più lacrime, guardavo scorrere le acque del fiume. Scorrevano come i miei pensieri, incoerenti, che si susseguivano uno dopo l’altro senza un filo logico.
D’un tratto, un rumore catturò la mia attenzione sconnessa.
Non un rumore qualsiasi, un suono.
Il suo fischio.
Mi guardai attorno. Temevo di averlo solo immaginato.
Ricordo ancora quando lui, tempo prima, tentò di insegnarmerlo.
Risi di quel pensiero, ma mi fermai subito. Mi sentivo un’isterica.
Dopo quell’episodio, mi disse che avrebbe fischiato per chiamarmi quando avrei avuto bisogno di lui. Quando avrebbe voluto farmi sapere che mi era accanto.
Sentirlo in quel momento sarebbe stato la mia ancora di salvezza.
Un altro fischio.
Questa volta mi alzai, per guardare meglio.
Una figura sbucò dalla sorgente del torrente. Cercai di non illudermi, poteva anche non essere lui.
E se invece fosse stato lui? Era tornato per me?
Riconobbi le sue forme, la sua statura, il suo taglio stravagante di capelli. Non potevo sbagliarmi.
Subito si riaccese in me una scintilla di speranza, sorse come la luce della luna che si liberava delle nuvole, in quel momento, e apriva i fiori rimasti chiusi.
Avrei voluto corrergli incontro, ma pensai che probabilmente era ancora in collera con me.
Si avvicinò, e aspettai che dicesse qualcosa. Ci fu un lungo silenzio, come i tanti che avevano popolato i nostri ultimi giorni insieme.
– Tidus, io… – cominciai.
Lui mi zittì con le dita sulle labbra.
– Aspetta un attimo – sussurrò. – Fammi assaporare questo momento.
Non capii cosa intendeva, non c’era niente di diverso dal solito. Ma anche solo vederlo, lì, davanti ai miei occhi, era un sollievo.
Restammo così per qualche minuto, il lungo silenzio interrotto poi dalle sue parole.
– Quando gli intercessori mi riportarono a Besaid, mesi fa, la prima cosa che feci quando uscii dall’acqua fu fischiare per te, per farti capire che ero tornato. Il mio primo pensiero era rivolto a te, come l’ultimo prima che scomparissi, anni fa – parlò in un sussurro, flebile ma deciso, guardandomi negli occhi. – Ne abbiamo passate tante, durante il periodo in cui c’era Sin, ma l’unica cosa che per me contava era proteggerti.
Si fermò, forse per lasciarmi assorbire l’intensità delle parole e ciò che celavano.
– Quando sparii, poi, ero preoccupato soltanto di doverti lasciare, del resto non m’importava, nemmeno del blitzball.
Mi sentii pungere gli occhi, e pensai che in quei giorni avevo pianto davvero tanto. Ecco ritornata l’incoerenza della mia mente esausta.
Mi prese le mani, e le strinse, come se non volesse lasciarmi più andare.
– Prima di partire, ho pensato a tutte queste cose, al motivo per cui ero qui, e a quello che mi spingeva ad andarmene, ad allontanarmi da te, e non lo trovai abbastanza valido. Era totalmente inutile. Perciò non presi la nave per Luka. A dirla tutta, mi stavano anche antipatici quei tipi.
Ecco tornato il vecchio Tidus, quello che tentava di alleggerire una situazione pesante con una battuta. Quanto mi era mancato. E non potei non rallegrarmi del fatto che i Goers non gli piacessero. Meno tentazioni di trasferimento per il futuro.
Toccava a me scusarmi, ma prima volevo accertarmi che lui non fosse arrabbiato, benchè lui non si innervosisca mai con nessuno.
Lo abbracciai, forte, e lui ricambiò la stretta.
Restammo così per un po’, e non era affatto una sensazione sgradevole. Riusciva a trasmettermi il suo calore anche con un contatto così semplice.
Ancora abbracciati, iniziai a parlare.
– Ho fatto uno sbaglio enorme. Sia ad accusarti di quelle cose ingiuste, sia a lasciarti andare. Dopo che te n’eri andato, arrabbiato, da casa, capii che probabilmente avrei fatto meglio a venire con te a Luka che ad andare con i Gabbiani. Ma era troppo tardi per cambiare idea, avevo già accettato e non potevo rinunciare.
– Ah sì, so come sei fatta tu, prendi un impegno e lo mantieni fino alla morte – m’interruppe, scherzoso. Rise della sua battuta, ma smise subito per lasciarmi continuare.
– Stavamo per partire, quando ho parlato con Paine. Mi ha fatto capire bene il mio errore e cosa stavo per fare, e ho cambiato idea. Sono corsa al porto ma la nave era già salpata. Credevo fossi già partito – mi si incrinò la voce sull’ultima frase. Lui se ne accorse e mi abbracciò.
– E’ tutto ok, Yunie, non vado proprio da nessuna parte.
Strano come delle parole così semplici possano scatenare una tale reazione in un organismo. Mi sentii pervadere dalla felicità, convinta che d’ora in poi non ci sarebbe più stata una separazione del genere. Non riuscivo a staccargli gli occhi di dosso, e lui sembrava non riuscire a fare altrettanto.
Mi prese per mano e sorrise, cominciando a camminare.
– Dai, Yunie, facciamo a chi arriva prima.
Risi. Nessuno era capace di chiudere un brutto episodio e non pensarci più come faceva lui, ed era solo un bene, perchè, strano a dirsi, questa volta avevo sbagliato io.
Così, a dispetto di ciò che temevo, ricominciammo a correre insieme per le strade che il destino aveva incrociato.


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